6 dicembre 2011

Prendere posizione. Architettura e distribuzione


Di seguito pubblichiamo un testo del professor Olmo, ora convalescente, che raccoglie alcune riflessioni fondamentali sul tema del laboratorio che state affrontando e sul significato di questa esperienza. 
L'invito è di provare a misurarvi su questo terreno per creare un confronto non appena ci rivedremo (15/12).

Buona lettura e buon lavoro

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Che cosa distingue oggi un’architettura da una stratificazione di tecniche, sempre più autoreferenziali? La risposta è tutt’altro che semplice. Anche l’architettura conosce la frammentazione dei linguaggi e delle pratiche che interessano la medicina o l’ingegneria. Un processo quasi ineludibile, sia culturalmente sia per i mercati professionali che genera e alimenta; un processo che produce nuove tecnocrazie (e oligarchie) persino dentro le Facoltà universitarie. Sotto il vessillo, un po’ lacero, della complessità si stanno generando carriere accademiche, professioni, nuove attività imprenditoriali che segnano con crescente durezza i propri confini. L’architettura appare sempre più un puzzle, se non proprio impazzito, certo alimentato da nuove retoriche e nuovi «doveri sociali».
L’architettura deve essere...: gli aggettivi che l’accompagnano segnano confini, individuano interessi. «Sostenibile», «intelligente», «virtuale», «sociale»: ognuna di queste possibili definizioni centra l’architettura su valori «esterni», importanti ma non fondativi e, soprattutto, li assolutizza. Sarebbe un paradosso, insieme divertente e didascalico, mettere in fila i «dover essere» che oggi incarnerebbero quello che nella seconda metà di Settecento si comincia a indicare come caractère di un edificio, pubblico o privato.
Il rapporto che si è inoltre istituito tra simbolo e popolo in questi ultimi vent’anni, tra l’attribuzione a una forma di un valore che sia leggibile da un fruitore che è individuo o massa, rende anche il piano dei linguaggi architettonici sempre più scivoloso. Chi attribuisce valore a questi linguaggi? Il processo che li rende insieme riconoscibili ed esclusivi ha oggi a che fare più con l’universo della comunicazione che con la kunstwollen del singolo o di una comunità scientifica o sociale. Certo non è sempre così, sarebbe sciocco banalizzare. Resta l’estrema difficoltà a distinguere tra bizzarria ed eccezione, tra la ricerca di un brand aziendale e l’espressione di valori collettivi.
Dei tanti attrezzi depositati in ordine sui piani dei settecenteschi cabinets, resta in mano all’architetto il più difficile, e certamente oggi il meno frequentato: la distribuzione. Di sicuro non ha favorito una riflessione tanto complessa il più lungo ciclo edilizio mai registrato, né la trasformazione dell’architettura nel perno di una finanziarizzazione dell’economia, i cui esiti sono sotto gli occhi di tutti. L’autentica orgia quantitativa (e non solo di capannoni industriali) fa apparire quasi patetici i dibattiti degli anni venti o sessanta sugli standard costruttivi e urbanistici, l’unica vera risposta che si è tentata di fronte alla crescita quantitativa del costruire. E parlare di distribuzione di fronte a miliardi di metri cubi costruiti ricorda l’incipit di Alice nel paese delle meraviglie, anche se forse è proprio ripercorrendo quel viaggio che si possono scoprire, dietro i volti anonimi delle società d’ingegneria o immobiliari, i nostri stregatti, cappellai matti, leprotti bisestili…
Se il rapporto tra un bisogno - una parola che oggi suscita quasi tenerezza - e un’organizzazione spaziale è scontato e può essere interamente risolto da una norma (tecnica, giuridica o procedurale poco importa), che necessità c’è dell’architettura? Né regge l’osservazione che si vuole rilanciare una visione elitaria e assai limitata dell’architettura. Nel 1928 Alexander Klein pubblica il suo saggio - un tempo famoso, oggi quasi dimenticato – sull’invenzione distributiva. Potrebbe essere un ripartire da quella ricerca e da quei 36 mq., cui non solo Klein si dedicò.
Come oggi la sociologia più attenta sta tornando a riflettere, a cercar dati, a interrogarsi sui ceti medi, così l’architettura dovrebbe tornare a riflettere sui nessi tra spazio e società, in una società che oscilla tra consumi di massa e riscoperta della qualità, persino nel mercato immobiliare, tra tecnocrazie (e oligarchie) e ideologie, forse in parte regressive, ma che riguardano problemi centrali per la stessa idea di architettura, come  la durata, la qualità del vivere civile, la conservazione delle risorse come elemento di una responsabilità generazionale irrinunciabile.
Distribuire è l’esercizio forse più difficile, lo sa chi amministra la giustizia e il diritto. Ma è anche il fondamento di ogni società che si vuole democratica. Anche per questo motivo riprendere questa discussione appare ancor più importante e urgente.
Distribuire sappiamo davvero cosa significa e implica? La risposta di tanti potrebbe essere quasi irritata. Distribuire? Percorsi, flussi, funzioni, cos’altro? E quasi in automatico, come in un racconto di Karl Krause, ecco apparire scale, corridoi, ballatoi….sino alle rotonde autostradali, che, forse non a caso, sono per altro soggette ad un opera di camouflage che riscopre un’arte antica. Sono simboli, non funzioni, poffarbacco, avrebbe sussurrato Don Abbondio, quasi mangiandosi le parole.
Così distribuzione ricade nell’ordinata serie di scatole, che il bravo architetto conserva nel cassetto dei suoi attrezzi, insieme ad altri e più moderni strumenti: la scatola delle tecniche, ormai strabordante, quella delle citazioni formali, ampliata a dismisura dal possibile ricorso alle tante banche dati, quella delle penne informatiche, capaci di manipolare le forme, facendo apparire il più torbido espressionismo un esercizio da scuola materna, quella infine dei programmi, estesa a dismisura, e protetta, non tanto da bevetti, quanto dall’occhio indiscreto di un novello dott. Settembrini.
Confinata nel suo ordinato spazio richiuso, la distribuzione appare, come ogni altra scatola, un sapere senza interrogativi, uno strumento davvero pronto ad un uso appena discreto. Perché disturbare i troppi pensieri che avevano inquietato tanti architetti, quando, ad esempio, una funzione, dormire, mangiare, accogliere, studiare, d’improvviso era parsa non solo senza…misure, ma anche con risposte ben differenti ad ognuna di quelle possibili definizioni, al loro poter corrispondere o meno ad uno spazio, al ben diverso ruolo privato e pubblico che potevano giocare nella stessa società, ma in ceti diversi. Oibo’, questa volta sembra mastro Geppetto, ma questa funzione parla...Aimé sì e sembra davvero la creatura del falegname di Collodi, indisciplinata, curiosa, mobile e dispettosa. La distribuzione si presenta insieme come una misura e un racconto che richiedono quello che Brecht chiedeva al sapere: per conoscere bisogna prendere posizione.
La distribuzione appare allora uscire dalla sua scatoletta e prendere la forma del genio della lampada, nel novecentottoesimo racconto delle mille e una notte. Può esaudire i desideri dell’incauto architetto che lo ha risvegliato, senza però dimenticare il carattere dispettoso del Genio.
Come dorme un…e qui la lingua si ferma. Sino a trent’anni fa si poteva dire un operaio, un impiegato, magari distinguendo tra un quadro e un impiegato pubblico, un professionista, un rentier, un intellettuale... e un architetto. Oggi questi strumenti si sono sbriciolati nelle mani dell’incauto professionista, mentre il genio se la ride….Dormire e poi quando, in quanti, e la privacy, e l’appoggio del collo, il ruolo che svolge nella vita del singolo… e il rapporto tra sesso, pudicamente allora si chiamava riproduzione, e necessità di essere sempre presente nella nuvola di informazione che ormai si sta facendo beffa dell’individualità su cui si costruisce, sin dal tempo della seconda diaspora ebraica, la radice del nostro essere umani?  E le variabili potrebbero continuare in un gioco quasi pantagruelico, quasi infinito, dove quasi ogni cosa può rientrare in quella funzione. Dormire  - e la sua stanza, il suo letto - era l’otium, era l’abbandono dell’incipit della Recherche, era la noia creatrice del protagonista dell’omonimo romanzo di Moravia.
Distribuire cosa, per favore non farmi irritare., avrebbe un po’ stizzito, suggerito Panglos al suo allievo. Si può distribuire però se si può misurare e tu mi parli di troppe incertezze. Ma che mestiere è mai il tuo?
Solo allora, il povero architetto, si accorge che quella scatola, il suo Pinocchio e il suo Genio, sono assai indigesti e che la rassicurante strada dei flussi e delle funzioni è ormai alle spalle, come lo è la società che su flussi e funzioni, definite persino negli orari, viveva. D’altronde che bisogno c’è di te, se non sai rispondere ai quesiti di Ulisse? E’ pronto, e non c’è bisogno di scomodare Asimov, un altro programma, che compone e ricompone, offrendo continue variazioni Goldberg, al proprio affascinato cliente.
Peccato che una distribuzione fissi un ordine, si traduca in una gerarchia, rimanga, anche quando, canticchiando Pinocchio e il genio, se ne sono andati. La cultura architettonica dell’età della meccanizzazione aveva forgiato una categoria magica, flessibilità, per rendere meno…inutile l’applicazione di tipi e standard. A Ulm come a Boston cervelli finissimi elaborarono varianti improbabili, come la distribuzione che a voi è chiesta, per sottrarsi ad un protocollo sempre più coercitivo. Oggi che i protocolli sembrano non esistere, con un’ironia della storia quasi Brechtiana, la realtà è che di protocolli si vive e, caso mai,  il problema è sfuggire l’illusione che la flessibilità sia tutto e che il flusso, sia la metafora che può riscattarci da una condizione davvero di relativismo senza regole. Come il programma si spegne, lasciando l’affascinato cliente nell’illusione che ogni scelta sia possibile, così le teorie dei flussi o della liquidità, precipita, come Alice nell’incipit del suo girovagar nel bosco, in un universo dove non si chiamano solo diversamente personaggi e oggetti: dove sono le misure e la prova (del disegno) a dar forma a sogni o far rivivere incubi.
Allora provare a prendere posizione, può ritornar ad essere la chiave per ritornar a distribuire, ricordandosi che la distribuzione molto a che fare con un altro piano, davvero oggi poco praticato nelle teorie degli architetti, la giustizia.

Carlo Olmo

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