Di seguito pubblichiamo un testo del professor Olmo, ora convalescente, che raccoglie alcune riflessioni fondamentali sul tema del laboratorio che state affrontando e sul significato di questa esperienza.
L'invito è di provare a misurarvi su questo terreno per creare un confronto non appena ci rivedremo (15/12).
Buona lettura e buon lavoro
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Che cosa distingue oggi
un’architettura da una stratificazione di tecniche, sempre più
autoreferenziali? La risposta è tutt’altro che semplice. Anche l’architettura
conosce la frammentazione dei linguaggi e delle pratiche che interessano la
medicina o l’ingegneria. Un processo quasi ineludibile, sia culturalmente sia
per i mercati professionali che genera e alimenta; un processo che produce
nuove tecnocrazie (e oligarchie) persino dentro le Facoltà universitarie. Sotto
il vessillo, un po’ lacero, della complessità si stanno generando carriere
accademiche, professioni, nuove attività imprenditoriali che segnano con
crescente durezza i propri confini. L’architettura appare sempre più un puzzle, se non
proprio impazzito, certo alimentato da nuove retoriche e nuovi «doveri
sociali».
L’architettura deve essere...:
gli aggettivi che l’accompagnano segnano confini, individuano interessi.
«Sostenibile», «intelligente», «virtuale», «sociale»: ognuna di queste
possibili definizioni centra l’architettura su valori «esterni», importanti ma
non fondativi e, soprattutto, li assolutizza. Sarebbe un paradosso, insieme
divertente e didascalico, mettere in fila i «dover essere» che oggi
incarnerebbero quello che nella seconda metà di Settecento si comincia a
indicare come caractère di un
edificio, pubblico o privato.
Il rapporto che si è inoltre
istituito tra simbolo e popolo in questi ultimi vent’anni, tra l’attribuzione a
una forma di un valore che sia
leggibile da un fruitore che è individuo o massa, rende anche il piano dei
linguaggi architettonici sempre più scivoloso. Chi attribuisce valore a questi
linguaggi? Il processo che li rende insieme riconoscibili ed esclusivi ha oggi
a che fare più con l’universo della comunicazione che con la kunstwollen del singolo o di una comunità
scientifica o sociale. Certo non è sempre così, sarebbe sciocco banalizzare.
Resta l’estrema difficoltà a distinguere tra bizzarria ed eccezione, tra la
ricerca di un brand aziendale e l’espressione di valori collettivi.
Dei tanti attrezzi depositati in
ordine sui piani dei settecenteschi cabinets,
resta in mano all’architetto il più difficile, e certamente oggi il meno
frequentato: la distribuzione. Di sicuro non ha favorito una riflessione tanto
complessa il più lungo ciclo edilizio mai registrato, né la trasformazione
dell’architettura nel perno di una finanziarizzazione dell’economia, i cui
esiti sono sotto gli occhi di tutti. L’autentica orgia quantitativa (e non solo
di capannoni industriali) fa apparire quasi patetici i dibattiti degli anni venti
o sessanta sugli standard costruttivi e urbanistici, l’unica vera risposta che
si è tentata di fronte alla crescita quantitativa del costruire. E parlare di
distribuzione di fronte a miliardi di metri cubi costruiti ricorda l’incipit
di Alice nel paese delle meraviglie, anche se forse è proprio
ripercorrendo quel viaggio che si possono scoprire, dietro i volti anonimi
delle società d’ingegneria o immobiliari, i nostri stregatti, cappellai matti,
leprotti bisestili…
Se il rapporto tra un bisogno - una
parola che oggi suscita quasi tenerezza - e un’organizzazione spaziale è
scontato e può essere interamente risolto da una norma (tecnica, giuridica o
procedurale poco importa), che necessità c’è dell’architettura? Né regge
l’osservazione che si vuole rilanciare una visione elitaria e assai limitata dell’architettura.
Nel 1928 Alexander Klein pubblica il suo saggio - un tempo famoso, oggi quasi
dimenticato – sull’invenzione distributiva. Potrebbe essere un ripartire da
quella ricerca e da quei 36 mq., cui
non solo Klein si dedicò.
Come oggi la sociologia più
attenta sta tornando a riflettere, a cercar dati, a interrogarsi sui ceti medi,
così l’architettura dovrebbe tornare a riflettere sui nessi tra spazio e
società, in una società che oscilla tra consumi di massa e riscoperta della
qualità, persino nel mercato immobiliare, tra tecnocrazie (e oligarchie) e
ideologie, forse in parte regressive, ma che riguardano problemi centrali per
la stessa idea di architettura, come la
durata, la qualità del vivere civile, la conservazione delle risorse come
elemento di una responsabilità generazionale irrinunciabile.
Distribuire è l’esercizio forse
più difficile, lo sa chi amministra la giustizia e il diritto. Ma è anche il
fondamento di ogni società che si vuole democratica. Anche per questo motivo riprendere questa discussione appare
ancor più importante e urgente.
Distribuire sappiamo davvero cosa
significa e implica? La risposta di tanti potrebbe essere quasi irritata.
Distribuire? Percorsi, flussi, funzioni, cos’altro? E quasi in automatico, come
in un racconto di Karl Krause, ecco apparire scale, corridoi, ballatoi….sino
alle rotonde autostradali, che, forse non a caso, sono per altro soggette ad un
opera di camouflage che riscopre
un’arte antica. Sono simboli, non funzioni, poffarbacco, avrebbe sussurrato Don
Abbondio, quasi mangiandosi le parole.
Così distribuzione ricade
nell’ordinata serie di scatole, che il bravo architetto conserva nel cassetto
dei suoi attrezzi, insieme ad altri e più moderni strumenti: la scatola delle
tecniche, ormai strabordante, quella delle citazioni formali, ampliata a
dismisura dal possibile ricorso alle tante banche dati, quella delle penne
informatiche, capaci di manipolare le forme, facendo apparire il più torbido
espressionismo un esercizio da scuola materna, quella infine dei programmi,
estesa a dismisura, e protetta, non tanto da bevetti, quanto dall’occhio
indiscreto di un novello dott. Settembrini.
Confinata nel suo ordinato spazio
richiuso, la distribuzione appare, come ogni altra scatola, un sapere senza
interrogativi, uno strumento davvero pronto ad un uso appena discreto. Perché
disturbare i troppi pensieri che avevano inquietato tanti architetti, quando,
ad esempio, una funzione, dormire, mangiare, accogliere, studiare, d’improvviso
era parsa non solo senza…misure, ma anche con risposte ben differenti ad ognuna
di quelle possibili definizioni, al loro poter corrispondere o meno ad uno
spazio, al ben diverso ruolo privato e pubblico che potevano giocare nella
stessa società, ma in ceti diversi. Oibo’, questa volta sembra mastro Geppetto,
ma questa funzione parla...Aimé sì e sembra davvero la creatura del falegname
di Collodi, indisciplinata, curiosa, mobile e dispettosa. La distribuzione si
presenta insieme come una misura e un racconto che richiedono quello che Brecht
chiedeva al sapere: per conoscere bisogna prendere posizione.
La distribuzione appare allora
uscire dalla sua scatoletta e prendere la forma del genio della lampada, nel
novecentottoesimo racconto delle mille e una notte. Può esaudire i desideri
dell’incauto architetto che lo ha risvegliato, senza però dimenticare il
carattere dispettoso del Genio.
Come dorme un…e qui la lingua si
ferma. Sino a trent’anni fa si poteva dire un operaio, un impiegato, magari
distinguendo tra un quadro e un impiegato pubblico, un professionista, un rentier, un intellettuale... e un
architetto. Oggi questi strumenti si sono sbriciolati nelle mani dell’incauto
professionista, mentre il genio se la ride….Dormire e poi quando, in quanti, e
la privacy, e l’appoggio del collo, il ruolo che svolge nella vita del singolo…
e il rapporto tra sesso, pudicamente allora si chiamava riproduzione, e
necessità di essere sempre presente nella nuvola di informazione che ormai si
sta facendo beffa dell’individualità su cui si costruisce, sin dal tempo della
seconda diaspora ebraica, la radice del nostro essere umani? E le variabili potrebbero continuare in un
gioco quasi pantagruelico, quasi infinito, dove quasi ogni cosa può rientrare
in quella funzione. Dormire - e la sua
stanza, il suo letto - era l’otium,
era l’abbandono dell’incipit della Recherche,
era la noia creatrice del protagonista dell’omonimo romanzo di Moravia.
Distribuire cosa, per favore non
farmi irritare., avrebbe un po’ stizzito, suggerito Panglos al suo allievo. Si
può distribuire però se si può misurare e tu mi parli di troppe incertezze. Ma
che mestiere è mai il tuo?
Solo allora, il povero
architetto, si accorge che quella scatola, il suo Pinocchio e il suo Genio,
sono assai indigesti e che la rassicurante strada dei flussi e delle funzioni è
ormai alle spalle, come lo è la società che su flussi e funzioni, definite
persino negli orari, viveva. D’altronde che bisogno c’è di te, se non sai
rispondere ai quesiti di Ulisse? E’ pronto, e non c’è bisogno di scomodare
Asimov, un altro programma, che compone e ricompone, offrendo continue
variazioni Goldberg, al proprio affascinato cliente.
Peccato che una distribuzione
fissi un ordine, si traduca in una gerarchia, rimanga, anche quando,
canticchiando Pinocchio e il genio, se ne sono andati. La cultura
architettonica dell’età della meccanizzazione aveva forgiato una categoria
magica, flessibilità, per rendere meno…inutile l’applicazione di tipi e
standard. A Ulm come a Boston cervelli finissimi elaborarono varianti
improbabili, come la distribuzione che a voi è chiesta, per sottrarsi ad un
protocollo sempre più coercitivo. Oggi che i protocolli sembrano non esistere,
con un’ironia della storia quasi Brechtiana, la realtà è che di protocolli si
vive e, caso mai, il problema è sfuggire
l’illusione che la flessibilità sia tutto e che il flusso, sia la metafora che
può riscattarci da una condizione davvero di relativismo senza regole. Come il
programma si spegne, lasciando l’affascinato cliente nell’illusione che ogni
scelta sia possibile, così le teorie dei flussi o della liquidità, precipita,
come Alice nell’incipit del suo girovagar nel bosco, in un universo dove non si
chiamano solo diversamente personaggi e oggetti: dove sono le misure e la prova
(del disegno) a dar forma a sogni o far rivivere incubi.
Allora provare a prendere
posizione, può ritornar ad essere la chiave per ritornar a distribuire,
ricordandosi che la distribuzione molto a che fare con un altro piano, davvero
oggi poco praticato nelle teorie degli architetti, la giustizia.
Carlo Olmo
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